Il tempo dei “social” ha ucciso la “socialità”. O comunque ne ha velocizzato la lenta agonia.
Poco fa ho letto, tutto d’un fiato, il post pubblicato su Fb da Lara Maggiali.
Stupendo… non fa una grinza…una profonda riflessione che esprime, come sicuramente io non sarei riuscito a fare, il mio pensiero…
a mo’ di apprezzamento ero tentato di postare, come mi è capitato in passato in analoghe situazioni, un commento con hastag, #questoavreivolutoscriverloio…
però, dato l’argomento in questione, un commento con hastag sarebbe apparso inappropriato, quasi irriverente…
le ho chiesto quindi di poter riportare, tal quale, il suo post sul mio blogghiario…
eccolo, buona lettura!
(clicca per ingrandire)
Un tempo c’era la parola scritta.
Quella con carta e penna.
L’odore dell’inchiostro, le carte da lettera, i diari, le Smemorande…
cui affidavi i tuoi pensieri più intimi e quelli squinternati.
Tenevi lì dentro i biglietti dei concerti e quelli dei viaggi in bus e in treno, ma solo quelli che associavi a qualche giorno particolare, che meritava di essere ricordato.
Quei diari alla fine dell’anno avevano raddoppiato il loro spessore, perché erano come piccole valigie di ricordi.
Film di un anno con tutte le emozioni che avevi voluto fissare, nero su bianco.
C’erano le lettere.
Gli amici di penna.
La mattina guardavi la cassetta della posta per vedere se la risposta era arrivata.
Io scrivevo anche a mie amiche che erano qui a Genova. Lo facevo per il piacere di scrivere, per il piacere di quell’attesa, perché scrivere significava fermarsi, chiedere all’altra persona la stessa cosa.
In qualche modo demandare attenzione e tempo.
E poi c’era la calligrafia….che anche lei diceva qualcosa.
Potevi quasi scorgere , a volte, ciò che la persona provava mentre stava scrivendo: nervosismo, fretta, malizia, titubanza, timidezza.
Rituali e sensazioni di cui siamo stati forzatamente privati dall’irrompere dell’informatica e della tecnologia: ora la nostra calligrafia (e quella dell’altra persona) la incontriamo pochissimo, tanto che a volte siamo quasi in imbarazzo di fronte ad una penna…
come dovessimo allenarci all’utilizzo del nostro modo di scrivere.
Che è nostro, personale.
Il Times New Roman ci ha omologati tutti: non ci siamo più noi dietro quello che scriviamo, ci sono i caratteri pre impostati del computer o dello smartphone di turno.
La parola scritta richiede silenzio, un freno a qualsiasi attività.
Richiede quell’attenzione che diventa , a pensarci bene, materiale fondamentale di qualsiasi relazione importante nella nostra vita.
Un tempo le emozioni erano chiuse in buste di lettera, in diari che non vedevi l’ora di acquistare e scegliere accuratamente.
Adesso le nostre emozioni sono in piazze virtuali, dove finiamo per essere letti da tutti e da chiunque e finiamo per essere svelati, anche sotto metafore e mentite spoglie…
diventiamo libri aperti per chiunque.
Senza nemmeno più quel filtro ancora romantico che hanno rappresentato per un periodo i blog….
perché oggi anche quelli sono fagocitati dai social. Che tutto hanno distorto.
Non solo l’informazione, ma persino i concetti: “stringi amicizia” e accumuli “amici”….
in una virtualità che crea assenza di contatto e svilimento dei rapporti.
Siamo tutti forse narcisisti , chi più chi meno, in cerca di un palco.
Alcuni in maniera più marcata di altri…
A rifletterci bene, l’individualismo spinto è il vero cancro dei nostri tempi.
Ed è anche quello che in qualche modo decreta oggi la sconfitta globale della mia parte politica: non è il tempo del “noi”, del “collettivo”, della solidarietà.
È il tempo dell’Io. Un io frastagliato, sovrano, onnipresente.
Che è terreno fertile per una Destra aggressiva e divisiva.
Il tempo dei “social” ha ucciso la “socialità”. O comunque ne ha velocizzato la lenta agonia.
Una regressione lenta ma inarrestabile, sulla quale il meccanismo dei social ha innescato una spirale perversa, che ha accelerato ed esacerbato certi meccanismi.
A volte mi viene da pensare che chi ci ha “invitati, sbattuti e costretti” qui dentro forse aveva anche riflettuto sulle conseguenze….
magari un senso dietro le quinte c’è. Uno scopo preciso preordinato.
Ma oramai ne siamo soggiogati, e se questo disegno c’era direi che hanno vinto “Loro”.
E noi siamo rimasti fottuti.
Se tutti noi provassimo a riappropriarci del nostro tempo, delle nostre relazioni vere, del contatto visivo, dello scambio di voci e di sensazioni reali, forse potremmo provare ad interrompere questo gioco al massacro, e forse – nel nostro piccolo – persino provare ad invertire la rotta di una umanità distante, spaventata, incattivita, persa nei propri egoismi ed egocentrismi.
Un discorso che vale tanto per la nostra vita di uomini e donne, tanto per una riappropriazione della politica come cammino comune, fatto di esperienza e obiettivi da condividere.
Pensato per il “noi”, che la politica non è la mia pancia, ma pensare che posso riflettere su come migliorare la condizione di vita di tutti.
Mettendoci il nostro tempo, la nostra faccia e provando a ricreare un tessuto di relazioni non fittizie, ma dense di vissuto e di parole, e di pensieri pronunciati.
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(la foto di copertina è tratta dal libro “Il cuore di un poeta” di Terrence Hill)